Matteo Cibic

Il maestro giusto

Caparbietà e dedizione alla ricerca di una poetica propria. Questa la regola di MATTEO CIBIC. Con una postilla: scegliere sempre un grande da cui imparare
di Cristina Manfredi


«Sono un designer italiano che crea oggetti e spazi per industrie, musei, gallerie, collezionisti privati. Mi diverto a sperimentare tecniche e materiali differenti, e i miei oggetti hanno spesso forme zoomorfe e antropomorfe». Si presenta così Matteo Cibic, nipote di Aldo, pezzo da novanta del design italiano a cui Matteo è molto grato per le esperienze che gli ha trasmesso, senza però sentirsi succube del suo carisma.

Com’è arrivato a mettere in piedi il suo studio a metà tra Vicenza e Milano?

«Ero convinto di avere un talento per il basket e l’ho coltivato per qualche anno. Poi avevo pensato di concentrarmi sulle opere ecumeniche, impegnandomi come chierichetto e aspirando a diventare Papa. Alla fine, ispirato dalla Brit-Art inglese di fine anni Novanta, mi sono accorto che mi divertivano l’arte e il design. Ed eccomi qui».
In che cosa pensa di essere speciale? Qual è il suo vero talento?
«Non credo nel talento innato, penso che tutto stia nella caparbietà di un individuo, nel suo dedicarsi in modo completo a un’attività in maniera ossessiva. Le persone di talento che conosco hanno dovuto impegnarsi duramente e sono assorbite dal processo di coltivarlo e perfezionarlo. Per quanto mi riguarda, il lavorare con clienti molto diversi tra loro mi permette di investigare ogni giorno tecniche e conoscenze nuove. Cerco di innovare in settori specifici applicando informazioni e tecnologie di altri ambiti».


Quanto conta il confronto con gli altri nella definizione del proprio talento?


«Credo che i giudizi negativi alimentino l’impegno e la creazione di un percorso di ricerca autonomo. Lo scopo è quello di rendere comprensibile al mondo un certo universo, di definire un nuovo linguaggio con una poetica propria»..


C’è stata qualche figura significativa che l’ha aiutato a mettere a fuoco e a sviluppare le sue doti?


«Moltissime, a cominciare dei miei professori di architettura al liceo Zanchi e Sinigaglia: la loro era la dinamica del good cop & bad cop, così mi hanno insegnato a disegnare a mano e a studiare i dettagli dei grandi architetti del passato. Il graphic designer Giorgio Camuffo, per avermi fatto conoscere i creativi-star da cui assorbire una visione onirica. E mio zio Aldo, per avermi portato a Milano nel suo studio tutte le estati già da quando avevo 15 anni. Oltre che per avermi affidato, appena ventenne, progetti per la Biennale di Venezia e di Shanghai»
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C’è un consiglio che si sentirebbe di dare a chi pensa di avere un dono particolare, ma teme di non avere la forza per farlo crescere appieno?


«Cercate di lavorare al fianco di un grande maestro, per carpirne l’amore per la materia, i segreti, la curiosità, la costante voglia di sperimentare. Così potrete iniziare a capire come costruire il vostro sentiero, una grammatica solo vostra».