Luca Vitali

Guardiamoci dritto negli occhi

Per il cestista LUCA VITALI questa è la chiave per funzionare davvero in una squadra
di Cristina Manfredi


Luca Vitali ha voce calma e modi garbati, da vero gentiluomo. Cestista, cresciuto nelle giovanili della Virtus Bologna, arriva in Serie A con la Sutor Montegranaro, per poi passare all’Olimpia Milano e, dal 2016 è in squadra con il Basket Brescia Leonessa, dove gioca nel ruolo di playmaker. Ha raggiunto le cento presenze in Nazionale e detiene un record finora imbattuto, ovvero il maggior numero di assist realizzati durante una sola partita del campionato italiano. Ci parliamo in uno scampolo di tempo libero durante il ritiro del team, perché, nonostante sia ormai un campione affermato, non si permette di sgarrare i ritmi imposti dall’allenatore. Una serietà rassicurante, di questi tempi.

Com’è iniziata la sua storia con la pallacanestro?

«Entrambi i miei genitori giocavano a basket, perciò posso dire di essere praticamente nato con la palla in mano. Ho iniziato a prendere confidenza con il canestro quando avevo quattro anni, ma crescendo ho fatto altre esperienze, perché mi piacevano molto sia il nuoto sia il calcio. Si è trattato di una scelta ponderata e libera. La mia famiglia mi ha supportato in ogni scelta, senza mai forzarmi».


Ma quando si è convinto a puntare tutto su quello che ora è il suo mondo?


«Diciamo che la pioggia mi ha aiutato a prendere la decisione. Me la cavavo abbastanza bene col calcio, ma siccome non ci vedo molto, quando le partite si disputavano con il brutto tempo per me diventava un incubo, perché le goccioline mi appannavano la vista. Allora mi sono convinto che all’interno di un palazzetto tutto sarebbe stato più semplice. In più non mi piaceva la scarsa educazione sportiva che ruota intorno al calcio, il basket era l’ambiente giusto per me».


Cosa serve per emergere nel suo settore?


«Ci vogliono carattere, spirito di sacrificio e la giusta mentalità, perché avere talento non basta. Per assurdo si può arrivare lontano anche con poco talento, se la testa è vincente»


Qual è la caratteristica che l’ha portato a emergere?


«Ho personalità, il che in campo può essere un pregio, oppure un difetto. Soprattutto da giovane è difficile da maneggiare, perché ancora non ti conosci bene. Col tempo però maturi e riesci a plasmarla in modo che sia davvero funzionale. Da ragazzo pensi solo a dimostrare che sei il migliore della tua squadra, crescendo capisci l’importanza di assumerti delle responsabilità durante il gioco. Per esempio, io sono un playmaker atipico con i miei 201 centimetri, di solito è un ruolo che viene coperto da giocatori intono al metro e ottanta. Però ho una visione, riesco a valutare come passare al meglio la palla e questo mi dà grande soddisfazione. Mi piace costruire, vedere i progressi della squadra nel corso della stagione».


Da chi sente di potere imparare qualcosa oggi che è un professionista?


«Dalle opportunità, come per esempio quella di potermi confrontare con colleghi molto forti. Cerco sempre di carpire i pregi degli altri, che siano con me o contro di me. E alla base di tutto ci metto il rispetto perché un team che funziona è quello dove ci sono anche più leader capaci di lavorare insieme»


Qual è la sua sfida più grande?


«Capire come relazionarmi con le nuove generazioni. A volte con i compagni più giovani non è semplice comunicare. Io vengo da un mondo dove si risolveva tutto guardandosi dritto negli occhi, oggi invece certi messaggi non arrivano più in modo diretto, ma amplificati dai social media. Il processo si è complicato e la cosa si riflette anche sul campo, dove si gioca diversamente rispetto al passato. Per me però resta fondamentale trovare il modo per valorizzare i miei compagni e coinvolgerli quando siamo in partita».